È davvero singolare che la nuova disciplina delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro subordinato, in vigore dal prossimo 12 marzo, sia inserita nel decreto attuativo del Jobs Act dedicato alle “semplificazioni”. È difficile, infatti, immaginare un sistema più complicato e irrazionale di quello elaborato con l’art. 26, d.lgs. n. 151/2015 e dal decreto ministeriale attuativo del 15 dicembre 2015.
In base a tali norme, infatti, il lavoratore che vuole dimettersi (o che vuole confermare la sua adesione a una risoluzione consensuale del rapporto) DEVE:
1) farsi rilasciare dall’Inps un “PIN” (codice) personale;
2) abilitarsi creando un’utenza nel portale click lavoro;
3) accedere con dette credenziali al sito, per compilare un non semplice modulo di dimissioni/risoluzione, che viene poi spedito dal sistema all’indirizzo PEC dell’azienda e alla Direzione territoriale del lavoro;
In alternativa, si deve rivolgere a un soggetto “abilitato” (sindacato, patronato, ente bilaterale, commissione di certificazione), che per suo conto possa curare (gratis?) la procedura. Ma non è tutto. Entro 7 giorni il lavoratore può comunque revocare il proprio consenso, sempre con lo stesso procedimento telematico, con conseguente diritto al ripristino immediato del rapporto di lavoro.
Il “genio italico” che ha ideato il procedimento forse non ha considerato la serie pressoché infinita di problemi che si potranno porre nell’attuazione di tale disciplina.
Vediamone solo alcuni.
Innanzitutto, è presumibile che più di un lavoratore - non volendo o non sapendo gestire la procedura telematica, né volendo rivolgersi (gratis?) ai soggetti “abilitati” - si limiti a comunicare le dimissioni in modo, per così dire, convenzionale, con semplice lettera. Tali dimissioni sono espressamente dichiarate “inefficaci” dalla legge. Ciò significa che il lavoratore potrà poi ripresentarsi all’azienda pretendendo di essere riammesso al lavoro. Con le immaginabili conseguenze a carico dell’imprenditore, che magari avrà già assunto un sostituto. Per evitare tale situazione di incertezza, che la nuova disciplina si guarda bene dal considerare, il datore di lavoro potrà solo intimare al dipendente (per iscritto, con raccomandata) di effettuare subito la procedura di legge, avvertendolo che, allo stato, le sue dimissioni sono prive di effetto e che, pertanto, se non provvede dovrà considerarsi assente ingiustificato.
Ma se, come prevedibile, il lavoratore rimane inerte? La disciplina precedente, introdotta dalla tanto vituperata riforma Fornero (art. 4, l. n. 92/2012), consentiva al datore di lavoro di mettere in mora il dipendente e disponeva che, se questo non dava riscontro entro 7 giorni, il rapporto di lavoro comunque cessava. La nuova disciplina, invece, tace su tale eventualità. Ciò significa che, in caso di perdurante inerzia del dimissionario, l’azienda ha solo una possibilità: aspettare che, dopo l’intimazione di cui sopra (prima raccomandata) costui collezioni un numero sufficiente di giorni di assenza; quindi avviare una procedura disciplinare, contestando sempre per iscritto l’assenza ingiustificata (seconda raccomandata); irrogare infine il licenziamento (terza raccomandata). Parlare di “semplificazione” sembra davvero fuori luogo. Né l’aggravio di burocrazia è l’unico inconveniente per l’azienda. A rigore, infatti, nel caso appena esaminato, la causale della cessazione del rapporto è quella di un (pur costretto) licenziamento. Di conseguenza, l’Inps potrà pretendere (a meno di “aggiustamenti interpretativi” che però, allo stato, non sono annunciati) il relativo contributo previdenziale, che può giungere sino a circa 1.500 euro.
Si noti peraltro che, se la ricostruzione proposta è esatta, il lavoratore ha tutto l’interesse a farsi licenziare, visto che, a differenza di quanto accadrebbe in caso di dimissioni “efficaci”, in tal modo egli sembra poter aspirare all’indennità di disoccupazione.
Da www.ilsussidiario.net
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